sabato 4 luglio 2009

Firenze, la città dei musei

La mia intervista ad Antonio Paolucci pubblicata sull'ultimo numero della rivista "SITI" dell'Associazione Città e Siti UNESCO italiani

disponibile on line http://www.sitiunesco.it/index.phtml?id=780


Scorrendo la sua biografia mi ha colpito che, a parte Rimini, dove lei è nato e che è comunque una bellissima città d’arte, la sua carriera di studioso, di funzionario e di soprintendente dei musei statali, fino alla direzione dei musei vaticani, si è dipanata in una rete incredibile di siti patrimonio dell’umanità: Firenze, Mantova, Venezia, Verona, Roma, la Città del Vaticano e l’esperienza molto importante del terremoto di Assisi. E proprio nel finale la cittadinanza onoraria di Urbino, la città di origine della sua famiglia. Insomma, una vita scandita da genius loci potentissimi.

Si, ciò che lei dice è assolutamente vero. Devo dire che il momento apicale della mia carriera è stato quando, negli anni fra il ’95 e il ’96, sono stato ministro tecnico del governo Dini, per un anno e qualche mese. Perché in quella occasione ho potuto veramente fare il Soprintendente d’Italia. Avevo il privilegio, essendo ministro tecnico, di non occuparmi degli aspetti politici di quel governo, ma ho potuto veramente visitare l’Italia, le cento città, da Altamura a Salerno, da Enna a Belluno, i cento campanili, le cento piazze. Ho capito cos’è veramente l’identità italiana. Il fatto che il museo da noi esce dai suoi confini, si moltiplica nelle piazze, nelle strade ed occupa ogni piega del territorio. L’Italia è il paese del museo diffuso, lo sapevo anche prima, ma l’ho verificato proprio in quella occasione. E poi ci sono state nella mia carriera professionale le città del servizio: Venezia, Verona, Mantova, Firenze, tutti luoghi che mi hanno permesso di consolidare questa mia profonda convinzione sulla unicità dell’Italia, che non è questione di percentuali dei beni culturali mondiali, come spesso stoltamente si dice, ma è questione di visibilità, di pervasività del patrimonio. Il fatto che davvero qui da noi il museo è ovunque. E questo è quello che ci fa davvero unici e invidiati nel mondo, il nostro vero privilegio. Quindi ho avuto una carriera molto bella, senza avvertire la fatica da lavoro, perché non ci si può affaticare o annoiare occupandosi dei monumenti di Venezia o di Mantova.

Proprio in riferimento al concetto di museo diffuso, mi piace prendere spunto dalla parte finale della sua introduzione al Piano di gestione di Firenze: “Firenze non città museo, ma città dei musei perché se è vero che i musei fanno lo scheletro dei musei, la innervano e la significano, è altrettanto vero che in nessun altro luogo d’Italia si avverte con altrettanta evidenza il museo uscire dai suoi confini, occupare le piazze, le strade, false città con antica naturalezza”. Quindi, si può immaginare che Firenze sia una specie di paradigma, valido anche per tutte le altre città della penisola? E cosa può mettere in crisi questa realtà? Le scelte urbanistiche, le politiche del turismo, il decoro della città, per esempio il commercio ambulante?

Quando io dico che Firenze è la città dei musei dico una cosa qualifica, distingue l’unicità di Firenze. In questo senso Firenze è unica anche nel panorama italiano. Per far capire meglio cosa intendo, porto un esempio: gli Uffizi. Perché gli Uffizi sono speciali? Cosa hanno di così singolare rispetto agli altri tanti grandi musei del mondo? Le opere d’arte che ci stanno dentro? Si, certo, ce ne sono di meravigliose, ma ci sono tanti museo del mondo che ne hanno di più, penso al Prado di Madrid, penso all’Ermitage di San Pietroburgo, con decine e decine di Rembrant accumulati l’uno accanto all’altro, penso alla National Gallery di Londra e così via, ma nessuna città del mondo ha un museo che entra nella città.

Io dico sempre ai miei amici e a i miei colleghi: “quando venite per la prima volta agli Uffizi non vi preoccupate di vedere le varie opere d’arte di Michelangelo, Botticelli, lo farete in un secondo tempo, agli Uffizi ci tornerete ancora, la prima volta limitatevi a percorrere i corridoi. E allora capirete una cosa fondamentale: che gli Uffizi camminano sopra la città, cavalcano la città, sono la città e capirete anche che la bellezza che sta fuori dalle finestre (la cupole del Duomo, la torre di Arnolfo, i ponti sull’Arno, il colle di Belvedere fitto di ville e di chiese, le nuvole, i colori dell’acqua) la bellezza che sta fuori si riflette e si riverbera nella bellezza delle opere d’arte, nella sfilata delle sculture archeologiche, nelle sale Botticelli, Michelangelo, Leonardo e quant’altro”.

Naturalmente la seconda parte della domanda è la più complessa: il decoro della città, le scelte urbanistiche, le politiche del turismo, il caos, il disordine possono mettere in crisi questo sistema? Il fatto è che queste cose risultano a Firenze particolarmente stridenti e lesive perché ogni città del mondo è fissata da una certa immagine, Firenze è la città dell’ordine, dell’equilibrio, è la “camera con vista” sul miracolo di arte vita e natura armoniosamente coniugata.

Questa è Firenze. Per cui il disordine che a Napoli può anche essere trovato simpatico, città bellissima ma caotica, un “paradiso mescolato all’inferno”, come la definiva Goethe, oppure Roma, caos disordine, folle di pellegrini, rumore e quant’altro, ma abituata a metabolizzare, a digerire, ad assorbire, a Firenze tutto ciò diventa estremamente sgradevole proprio perché ferisce l’immagine cristallizzata della città “camera con vista”.

Sempre rimanendo nell’ambito dei musei, il recente saggio di Jean Clair “La crisi dei musei” si scaglia contro l’uso disinvolto del patrimonio culturale e fa un riferimento particolare all’esperienza recente del Louvre di aprire una sede distaccata ad Abu Dhabi, ma in Italia dell’istituzione museo nei suoi aspetti peculiari, si può parlare di una crisi di funzioni o la situazione è ben diversa rispetto a quella di altri Paesi?

La crisi dei musei attraversa tutto il mondo e il libro di Jean Claire fotografa il disagio e la mutazione in atto. È successo che il museo è gradualmente slittato negli ultimi cinquanta anni da una certa idea di museo da “luogo dell’incivilimento”, “luogo dell’educazione”, “luogo dell’orgoglio patriottico” ad un’idea di museo come luogo del tempo libero, dello svago, del divertimento, dello spettacolo. Questo è oggi nella percezione dei più il museo. Un museo che si unisce al concetto di tempo libero, di gita, di week-end con la famiglia o con la fidanzata. Tant’è vero che tanti musei civici d’Italia, pur bellissimi, sono costantemente vuoti e non ci va nessuno neanche per sbaglio. La gente va negli attrattori di tipo spettacolare. Nel 1938 agli Uffizi entravano 50mila persone, adesso ne entrano un milione e mezzo. Io sono personalmente convinto che c’era molta più gente che usciva dagli Uffizi avendo capito qualcosa, che ricordava qualcosa fra quei 50mila del 1938 rispetto al milione e mezzo di oggi. Oggi il popolo dei musei è fatto di gente che guarda solo la televisione, non ha mai letto un libro, non saprebbe scrivere nella sua lingua madre una riflessione di mezza cartella senza errori. Questa è la democrazia dei consumi.

Forse bisognerebbe immaginare dei linguaggi più specifici, o rischiamo di banalizzare…?

Un’altra stupidaggine dei nostri tempi è che si possa trasmettere la cultura attraverso il divertimento. La cultura è fatica, ripetitività, è noia, è tenere il sedere sulla sedia, ridurre il tempo del sonno… questa è la porta stretta. Non ce ne sono altre.

Concludendo vorrei da lei delle suggestioni legate all’educazione del bello. La scuola, l’amministrazione pubblica, il mondo del volontariato, tanto importante a Firenze, dovrebbero fare qualcosa di più per arrivare ad un innalzamento della consapevolezza del patrimonio inteso proprio come “heritage”, eredità da trasmettere?

Il mio maestro Roberto Longhi, in tempi non sospetti, cinquant’anni fa, quando ero studente, sosteneva che “la lingua fondamentale degli italiani è la lingua figurativa” e che questo ci aveva resi egemoni nel mondo. “E se questo è vero come è vero - aggiungeva il mio maestro - allora bisognerebbe che si desse alla lingua figurativa degli italiani (Giotto, Piero della Francesca, Raffaello, Caravaggio, ecc.) la stessa importanza che diamo alla nostra lingua letteraria, che comparativamente è meno importante”. Da una riflessione come questa derivano conseguenze che dovrebbero essere applicate soprattutto alla scuola, all’educazione al bello,appunto. Ancora non si è percepito a Firenze, in particolare, e in Italia, in generale, che un rapporto molto stretto lega la consuetudine col bello alla produzione di cose belle. L’artisticità italiana nel disegn, nella moda, nella meccanica fine, nell’invenzione tecnologica, nella gastronomia nasce da un popolo che ha vissuto in mezzo al bello, anche se non aveva una istruzione scolastica di qualche significato, però stava in mezzo al bello. Se la percezione del bello si offusca, se la gente vive in posti sempre più brutti, in periferie sempre più orrende, io credo che si recide questo rapporto osmotico che gli italiani hanno sempre avuto fra la bellezza che li circonda e la bellezza che esce dalle loro mani.



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