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sabato 14 gennaio 2017

#FTM per Cultura Commestibile 200 Un Americano a Firenze. John  Currin

La mia recensione rigorosamente fuori tempo massimo della mostra di John Currin al Museo Stefano Bardini


sabato 1 dicembre 2012

FTM_Pellegrini a caccia di Souvenir

Fuori Tempo Massimo per il libro di Antonio Pinelli, Souvenir. L'industria dell'Antico e il Grand Tour a Roma, Laterza, 2010.

Piccolo commento: per l'artigianato artistico c'è bisogno di pensiero e visione...


Cultura Commestibile n.6 del 1 dicembre 2012




lunedì 9 gennaio 2012

Il Laser nel cielo di Firenze nel 1978

In occasione dell'evento Luci e Ombre di Felice Limosani mi piace rammentare l'installazione di Dani Karavan chiamata Due ambienti per la pace del 1978 con il raggio laser che univa il Forte Belvedere alla Cupola del Brunelleschi come omaggio a Galileo


domenica 6 febbraio 2011

La mostra delle Armi Antiche in Palazzo Vecchio del 1938 nel Cinegiornale Luce

Dall'Archivio Storico Luce il Cinegiornale del 28 settembre 1939 per la Mostra delle armi antiche in Palazzo Vecchio.


Un disegno di Alfredo Lensi per l'allestimento della sala dedicata a Napoleone

 Di seguito il mio testo tratto da Palazzo Vecchio Officina di opere e di ingegni, a cura di Carlo Francini, Milano 2007, p.310
La Mostra delle Armi Antiche
Sulla scia delle grandi mostre già allestite in Palazzo Vecchio fu organizzata, all’interno delle iniziative per la visita di Hitler a Firenze del 1938, la Mostra delle Armi Antiche. L’incarico per la preparazione della mostra fu affidato ad Alfredo Lensi, ora iscritto all’ordine degli architetti, che univa, oltre all’esperienza diretta degli allestimenti precedenti, la competenza specifica sulle armi come direttore e primo ordinatore del Museo Stibbert; infatti gran parte delle armi esposte provenivano dalla collezione di Frederick Stibbert.
Al di là di semplicistiche considerazioni, in un periodo che ancora vedeva prevalere i tatticismi diplomatici, la visita di Hitler in una Firenze parata a festa, con sinistri allestimenti ispirati alle famigerate ‘liturgie’ naziste, sembra presagire un punto di non ritorno nella scelta militare, alla quale la Mostra delle Armi Antiche forniva una radice storica “questa mostra guerriera che documenta la nostra millenaria storia militare, di cui oggi, come non mai, il popolo italiano sotto il segno dell’aquila imperiale può veramente sentirsi degno”.
Il percorso della mostra prendeva inizio dal Quartiere del Mezzanino si sviluppava verso le Sale dei Priori, il Quartiere di Eleonora, il Quartiere degli Elementi e terminava nel Salone dei Cinquecento. Il Lensi, coadiuvato dai figli Giulio Cesare, ingegnere, e Giorgio, architetto, realizzò un allestimento suggestivo, mantenendo un tono razionale ma con inserimenti di grande gusto decorativo, come nella Sala d’Ercole “completamente trasformata, che accoglie sotto un baldacchino rosso il 'Gran Costume d’Italia' di Napoleone I. Armi corazze e spade che furono dei vincitori Austerlitz circondano la memoria imperiale”, o nella Sala dei Gigli dove a “ ridosso di un grandioso sfondo di stoffa purpurea che copre la parte fiordalisata, cavalca sopra un basamento nero la figura di un ‘Condottiere’ in armatura bianca”. La composizione, creata nello stile dello Stibbert, era un evidente concessione alla retorica fascista, sul piedistallo campeggiava la scritta ‘condottiere italiano’.
Ma è nel Salone dei Cinquecento, dove la decorazione con le scene di battaglia costituiva una cornice unica, che il Lensi riproponeva in tutta la sua suggestione la celebre ‘Cavalcata’, punto di forza del suo allestimento allo Stibbert.
Alfredo Lensi nel catalogo offriva, oltre ad un ampia e competente disamina sulle armi esposte e sugli ambienti, l’ultima testimonianza del suo legame con Palazzo Vecchio nel suo stile leggero e piacevole. Ancora una volta si era scontrato con la duplice realtà di Palazzo Vecchio. La Camera dell’Arme, sede naturale per l’esposizione, che il Lensi aveva recuperato nel 1907, anche a costo di aspre polemiche nei suoi confronti, era, nel 1938, sede di uffici “Per respirare l’aria del passato, bisognerebbe affacciarsi alla 'Camera dell’Arme', rude e grandiosa…Ma oggi la Camera dell’Arme è piena di gente impazientita e di pacifici scritturali che ammatassano chiacchere e carte schiccherate. É meglio tirar di lungo”.
Nelle altalenanti vicende di spazi recuperati e poi nuovamente ceduti a usi amministrativi spiccano in negativo il Quartiere di Cosimo, parte integrante del percorso della mostra del ritratto italiano, oggi sede di uffici e in positivo il recupero del Mezzanino alle funzioni museali e didattiche e, per buona pace del Lensi, della Sala d'Arme che oggi è una delle più ambite sedi espositive della città.
 
Le citazioni sono tratte dal catalogo della mostra
Mostra delle Armi Antiche in Palazzo Vecchio, catalogo della mostra, Firenze 1938.

in Palazzo Vecchio Officina di opere e di ingegni, a cura di Carlo Francini, Milano 2007, p.310

venerdì 14 gennaio 2011

Presentato il protocollo d'intesa tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Comune di Firenze

Presentato il protocollo d'intesa tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Comune di Firenze

Mi preme sottolineare come nelle premesse è evidenziata l'importanza dell'appartenenza alla World Heritage List dell'UNESCO.
...la città di Firenze riveste un ruolo di rilievo assoluto nell’offerta culturale a livello nazionale e internazionale; tale patrimonio, oltre alla straordinaria quantità e densità di capolavori dell’arte, dell’archeologia e dell’architettura, trova un elemento essenziale nel tessuto urbano del Centro storico, Patrimonio Mondiale dell’Umanità, che offre un eccezionale contesto oltre ad una irripetibile testimonianza,nella propria continuità spaziale e temporale, della storia e della cultura dell’ultimo millennio;...

venerdì 8 gennaio 2010

martedì 6 ottobre 2009

Caffè ad Arte

McDonald's al Louvre. E sul Corriere della Sera, come in altri giornali, parte il relativo dibattito, prese di posizione, arroccamenti e suggestive proposte locali. Francamente l'argomento è poco interessante da discutere: semmai è da gustare ma con scarsa fortuna nei nostri musei.
Ma non sempre è così. Un esempio che a mio parere coniuga mirabilmente ambientazione e gusto del cibo è rappresentato dal Caffè Madama in Palazzo Madama a Torino.
Gli ambienti juvarriani - la veranda Nord - la cortesia del personale, un arredo elegante e funzionale e una grande qualità delle proposte di alta pasticceria - profondamente torinese- ne fanno un luogo di diletto e di ristoro prezioso.
Ma la qualità di un museo si vede dal caffè?
La domanda è impropria. Non è la qualità del museo che si misura ma la qualità della società civile che in quel momento è chiamata a gestire e curare il museo. E non mi sembra una cosa da poco.

sabato 4 luglio 2009

Firenze, la città dei musei

La mia intervista ad Antonio Paolucci pubblicata sull'ultimo numero della rivista "SITI" dell'Associazione Città e Siti UNESCO italiani

disponibile on line http://www.sitiunesco.it/index.phtml?id=780


Scorrendo la sua biografia mi ha colpito che, a parte Rimini, dove lei è nato e che è comunque una bellissima città d’arte, la sua carriera di studioso, di funzionario e di soprintendente dei musei statali, fino alla direzione dei musei vaticani, si è dipanata in una rete incredibile di siti patrimonio dell’umanità: Firenze, Mantova, Venezia, Verona, Roma, la Città del Vaticano e l’esperienza molto importante del terremoto di Assisi. E proprio nel finale la cittadinanza onoraria di Urbino, la città di origine della sua famiglia. Insomma, una vita scandita da genius loci potentissimi.

Si, ciò che lei dice è assolutamente vero. Devo dire che il momento apicale della mia carriera è stato quando, negli anni fra il ’95 e il ’96, sono stato ministro tecnico del governo Dini, per un anno e qualche mese. Perché in quella occasione ho potuto veramente fare il Soprintendente d’Italia. Avevo il privilegio, essendo ministro tecnico, di non occuparmi degli aspetti politici di quel governo, ma ho potuto veramente visitare l’Italia, le cento città, da Altamura a Salerno, da Enna a Belluno, i cento campanili, le cento piazze. Ho capito cos’è veramente l’identità italiana. Il fatto che il museo da noi esce dai suoi confini, si moltiplica nelle piazze, nelle strade ed occupa ogni piega del territorio. L’Italia è il paese del museo diffuso, lo sapevo anche prima, ma l’ho verificato proprio in quella occasione. E poi ci sono state nella mia carriera professionale le città del servizio: Venezia, Verona, Mantova, Firenze, tutti luoghi che mi hanno permesso di consolidare questa mia profonda convinzione sulla unicità dell’Italia, che non è questione di percentuali dei beni culturali mondiali, come spesso stoltamente si dice, ma è questione di visibilità, di pervasività del patrimonio. Il fatto che davvero qui da noi il museo è ovunque. E questo è quello che ci fa davvero unici e invidiati nel mondo, il nostro vero privilegio. Quindi ho avuto una carriera molto bella, senza avvertire la fatica da lavoro, perché non ci si può affaticare o annoiare occupandosi dei monumenti di Venezia o di Mantova.

Proprio in riferimento al concetto di museo diffuso, mi piace prendere spunto dalla parte finale della sua introduzione al Piano di gestione di Firenze: “Firenze non città museo, ma città dei musei perché se è vero che i musei fanno lo scheletro dei musei, la innervano e la significano, è altrettanto vero che in nessun altro luogo d’Italia si avverte con altrettanta evidenza il museo uscire dai suoi confini, occupare le piazze, le strade, false città con antica naturalezza”. Quindi, si può immaginare che Firenze sia una specie di paradigma, valido anche per tutte le altre città della penisola? E cosa può mettere in crisi questa realtà? Le scelte urbanistiche, le politiche del turismo, il decoro della città, per esempio il commercio ambulante?

Quando io dico che Firenze è la città dei musei dico una cosa qualifica, distingue l’unicità di Firenze. In questo senso Firenze è unica anche nel panorama italiano. Per far capire meglio cosa intendo, porto un esempio: gli Uffizi. Perché gli Uffizi sono speciali? Cosa hanno di così singolare rispetto agli altri tanti grandi musei del mondo? Le opere d’arte che ci stanno dentro? Si, certo, ce ne sono di meravigliose, ma ci sono tanti museo del mondo che ne hanno di più, penso al Prado di Madrid, penso all’Ermitage di San Pietroburgo, con decine e decine di Rembrant accumulati l’uno accanto all’altro, penso alla National Gallery di Londra e così via, ma nessuna città del mondo ha un museo che entra nella città.

Io dico sempre ai miei amici e a i miei colleghi: “quando venite per la prima volta agli Uffizi non vi preoccupate di vedere le varie opere d’arte di Michelangelo, Botticelli, lo farete in un secondo tempo, agli Uffizi ci tornerete ancora, la prima volta limitatevi a percorrere i corridoi. E allora capirete una cosa fondamentale: che gli Uffizi camminano sopra la città, cavalcano la città, sono la città e capirete anche che la bellezza che sta fuori dalle finestre (la cupole del Duomo, la torre di Arnolfo, i ponti sull’Arno, il colle di Belvedere fitto di ville e di chiese, le nuvole, i colori dell’acqua) la bellezza che sta fuori si riflette e si riverbera nella bellezza delle opere d’arte, nella sfilata delle sculture archeologiche, nelle sale Botticelli, Michelangelo, Leonardo e quant’altro”.

Naturalmente la seconda parte della domanda è la più complessa: il decoro della città, le scelte urbanistiche, le politiche del turismo, il caos, il disordine possono mettere in crisi questo sistema? Il fatto è che queste cose risultano a Firenze particolarmente stridenti e lesive perché ogni città del mondo è fissata da una certa immagine, Firenze è la città dell’ordine, dell’equilibrio, è la “camera con vista” sul miracolo di arte vita e natura armoniosamente coniugata.

Questa è Firenze. Per cui il disordine che a Napoli può anche essere trovato simpatico, città bellissima ma caotica, un “paradiso mescolato all’inferno”, come la definiva Goethe, oppure Roma, caos disordine, folle di pellegrini, rumore e quant’altro, ma abituata a metabolizzare, a digerire, ad assorbire, a Firenze tutto ciò diventa estremamente sgradevole proprio perché ferisce l’immagine cristallizzata della città “camera con vista”.

Sempre rimanendo nell’ambito dei musei, il recente saggio di Jean Clair “La crisi dei musei” si scaglia contro l’uso disinvolto del patrimonio culturale e fa un riferimento particolare all’esperienza recente del Louvre di aprire una sede distaccata ad Abu Dhabi, ma in Italia dell’istituzione museo nei suoi aspetti peculiari, si può parlare di una crisi di funzioni o la situazione è ben diversa rispetto a quella di altri Paesi?

La crisi dei musei attraversa tutto il mondo e il libro di Jean Claire fotografa il disagio e la mutazione in atto. È successo che il museo è gradualmente slittato negli ultimi cinquanta anni da una certa idea di museo da “luogo dell’incivilimento”, “luogo dell’educazione”, “luogo dell’orgoglio patriottico” ad un’idea di museo come luogo del tempo libero, dello svago, del divertimento, dello spettacolo. Questo è oggi nella percezione dei più il museo. Un museo che si unisce al concetto di tempo libero, di gita, di week-end con la famiglia o con la fidanzata. Tant’è vero che tanti musei civici d’Italia, pur bellissimi, sono costantemente vuoti e non ci va nessuno neanche per sbaglio. La gente va negli attrattori di tipo spettacolare. Nel 1938 agli Uffizi entravano 50mila persone, adesso ne entrano un milione e mezzo. Io sono personalmente convinto che c’era molta più gente che usciva dagli Uffizi avendo capito qualcosa, che ricordava qualcosa fra quei 50mila del 1938 rispetto al milione e mezzo di oggi. Oggi il popolo dei musei è fatto di gente che guarda solo la televisione, non ha mai letto un libro, non saprebbe scrivere nella sua lingua madre una riflessione di mezza cartella senza errori. Questa è la democrazia dei consumi.

Forse bisognerebbe immaginare dei linguaggi più specifici, o rischiamo di banalizzare…?

Un’altra stupidaggine dei nostri tempi è che si possa trasmettere la cultura attraverso il divertimento. La cultura è fatica, ripetitività, è noia, è tenere il sedere sulla sedia, ridurre il tempo del sonno… questa è la porta stretta. Non ce ne sono altre.

Concludendo vorrei da lei delle suggestioni legate all’educazione del bello. La scuola, l’amministrazione pubblica, il mondo del volontariato, tanto importante a Firenze, dovrebbero fare qualcosa di più per arrivare ad un innalzamento della consapevolezza del patrimonio inteso proprio come “heritage”, eredità da trasmettere?

Il mio maestro Roberto Longhi, in tempi non sospetti, cinquant’anni fa, quando ero studente, sosteneva che “la lingua fondamentale degli italiani è la lingua figurativa” e che questo ci aveva resi egemoni nel mondo. “E se questo è vero come è vero - aggiungeva il mio maestro - allora bisognerebbe che si desse alla lingua figurativa degli italiani (Giotto, Piero della Francesca, Raffaello, Caravaggio, ecc.) la stessa importanza che diamo alla nostra lingua letteraria, che comparativamente è meno importante”. Da una riflessione come questa derivano conseguenze che dovrebbero essere applicate soprattutto alla scuola, all’educazione al bello,appunto. Ancora non si è percepito a Firenze, in particolare, e in Italia, in generale, che un rapporto molto stretto lega la consuetudine col bello alla produzione di cose belle. L’artisticità italiana nel disegn, nella moda, nella meccanica fine, nell’invenzione tecnologica, nella gastronomia nasce da un popolo che ha vissuto in mezzo al bello, anche se non aveva una istruzione scolastica di qualche significato, però stava in mezzo al bello. Se la percezione del bello si offusca, se la gente vive in posti sempre più brutti, in periferie sempre più orrende, io credo che si recide questo rapporto osmotico che gli italiani hanno sempre avuto fra la bellezza che li circonda e la bellezza che esce dalle loro mani.



domenica 21 settembre 2008

Ivan Theimer e Firenze

Ivan Theimer
La foresta di obelischi


Giardino di Boboli e Galleria d'Arte moderna di Palazzo Pitti
dal 5 luglio 2008 al 30 settembre 2008

La creazioni di Ivan Theimer offrono al visitatore attento e in particolare al pubblico fiorentino stimoli tali da stordire anche le menti più gelide.
L'uso dei materiali, il disegno, le citazioni dello scultore moravo, creano una tale massa di sinapsi, in particolare a chi ha ben presente la rete della scultura monumentale della città, capaci di indurre una specie di cortocircuito temporale.
Spesso si parla di contestualizzazione delle opere d'arte contemporanee nelle città d'arte: l'opera di Theimer è qualcosa di più sembra, e mi rendo conto dell'azzardo, un seguace della bottega del Giambologna - Tacca, che si presenta a noi esattamente dopo quattrocento anni dalla morte dello scultore “fiammingo”, con la capacità di rinnovare un linguaggio spesso dato per esaurito o stancamente citazionistico (sull'argomento si veda il saggio di Salvatore Settis nel catalogo).
Ecco allora che mi sovviene necessario proporre un elenco topografico che serva da viatico a coloro che avranno la fortuna di vedere la mostra in questi ultimi giorni e/o sfogliare il catalogo (magari soffermandosi sugli schizzi dai carnet di lavoro di Theimer) , per poi immergersi nelle piazze e nei musei cittadini per verificare questo confronto.
Piazza Santa Maria Novella con gli obelischi sorretti dalle tartarughe e la Piazza della SS. Annunziata con le fontane e il monumento equestre di Ferdinando I.
Palazzo Pitti e Boboli, sede della mostra seguendo i puntuali suggerimenti di Mario Lolli Ghetti e di Alessandro Cecchi presenti nel catalogo.
Piazza della Signoria con la scultura in copia e in originale tra Donatello e Giambologna senza dimenticare il Cellini e il Bandinelli, la base del Porcellino alla Loggia del Mercato Nuovo.
Palazzo Vecchio con gli Ercoli di Vincenzo de'Rossi nel Salone dei Cinquecento e il cavallo scorticato della collezione Loeser.
Certamente ancora più numerosi possono essere i paragoni, ma qui fermo parafrasando il titolo del saggio di Cristina Acidini curatrice di questa formidabile mostra “Bentornato Theimer”.

martedì 1 luglio 2008

Per Alessandro Coppellotti (1959-2007)

E' passato un anno da quando Alessandro se ne andato. Stasera ci siamo ritrovati con la famiglia e gli amici alla Basilica di San Salvatore al Monte per una messa in suffragio.
La vena retorica non mi appartiene e soprattutto non apparteneva a Alessandro che mi ha sempre colpito per un certo disincanto e per un magnifica capacità di riassumere con una battuta icastica il variato mondo dell'arte e dei musei che frequentava.
Quindi niente parole in più: solo il rimpianto delle piccole occasioni come quando ci si incontrava casualmente in via degli Alfani sotto la Rotonda magari con Francesco per i soliti rumors mai cattivi ma sempre divertenti e rasserenanti.

lunedì 30 giugno 2008

Ingressi e Uscite nei/dai Musei

A commento dell'articolo "Vado in gita alla coda degli Uffizi" a firma di Francesco Bonami e apparso domenica 29 giugno sul "Corriere Fiorentino" tiro fuori dal cappello un mio modesto contributo, uscito qualche anno fa, sull'argomento con delle considerazioni che si potrebbero ben applicare anche alla gestione delle code dei musei fiorentini.


I musei e la porta di servizio


In molti appartamenti di gran lusso o comunque destinati alla solida borghesia, il portone d’ingresso principale era affiancato da un più umile portoncino, per l’ingresso del personale di servizio, dei fornitori e degli artigiani.

Da qualche tempo in alcuni musei fiorentini, in maniera diretta o con modi più garbati, si preferisce far entrare il pubblico dalla porta di servizio.

Spicca come nota dolente la Galleria dell’Accademia, che poteva vantare uno degli accessi museali più suggestivi con uno scorcio prospettico sulla Tribuna del David: adesso si accede al museo attraverso un’indegna porticciola a lato dell’ingresso principale. Palazzo Medici Riccardi, per la verità con altro tenore, ha spostato l’ingresso dal magnifico cortile di Michelozzo a un passaggio laterale all’interno della fabbrica del Foggini, quindi di indubbia eleganza, ma non certo della stessa suggestione.
Altri tentativi di far transitare i visitatori da ingressi secondari sono stati perseguiti negli anni passati, anche se fortunatamente naufragati, e il sospetto che soluzioni similari saranno perseguite in prossimi riallestimenti museali é più che fondato.
Si avverte a Firenze, per quanto riguarda le funzioni di accesso ai musei, una sorta di confusione semantica: ne è prova evidente la querelle sorta in merito all’uscita degli Uffizi, che pone nello stesso piano il valore dell’ingresso con quello dell’abbandono. Come nell’alta cucina, la presentazione ha un valore determinante per l’apprezzamento di un piatto, così è evidente che l’ingresso ad una realtà istituzionale con una forte accentuazione educativa ha una connotazione iniziatica fondamentale.

Se nel dipanarsi della visita il percorso è funzionale al godimento delle opere d’arte e permette quella sorta di accrescimento educativo dato dai valori visivi che operano per segni e simboli, l’accesso al percorso - e mi si permetta non l’uscita - deve ancor più rivestirsi di questi segni per stimolare l’intuizione o ancor meglio la comprensione della natura dell’itinerario che il visitatore più o meno attento sta per intraprendere.

Confusione quindi nei museografi e indecisione dei museologi?

A mio parere il tema è dominato dalla aver subordinato le principali funzioni del museo, conservazione e educazione, a quella parte marginale che sono i servizi aggiuntivi, intesi nella larghissima accezione dell’articolo 117 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Servizi oggi ritenuti non solo indispensabili economicamente ma capaci di generare una nuova visione del museo più elegante, più accessibile, più amichevole. Conseguentemente, per ossequiare la moda imperante, si sacrificano accessi magnifici densi di significato a nuovi e semplicistici percorsi d’ingresso che permettono sì il transito e la sosta ai punti vendita ma accentuano la sensazione che il visitatore sia una specie minore non degna del passaggio principale, quindi non un ospite gradito, al quale si spalancano le porte dell’ingresso principale, ma una specie di intruso a malapena tollerato che deve pagare, e non poco, per l’accesso e spendere pure per il “ricordino”.

Allora guerra ai servizi aggiuntivi? Niente di tutto questo, ma solamente una doverosa subordinazione di valori.

Servizi più sviluppati nell’accoglienza e nella didattica e ricerca della qualità nel materiale in vendita nei negozi e nei bookshop, non possono che giovare all’istituzione museale, ma senza dimenticare che il museo ha una sua storia, un suo approccio alla realtà urbanistica della città e un suo dovere principale nella conservazione e nell’esposizione delle collezioni, e che anche nella sua dimensione architettonica la funzione di accesso mantiene una fortissima connotazione simbolica che non può essere incarnata da riduttive soluzioni di compromesso.

Carlo Francini

"Il Governo delle Cose" , 29/30, novembre-dicembre 2004, pp. 45-46.