domenica 26 dicembre 2010

Il Leone Medici della Loggia della Signoria per Chanel

Il 6 luglio di quest'anno al Grand Palais di Parigi l'attenzione del pubblico non era rivolta soltanto alla sfilata della collezione autunno-inverno della maison francese ma soprattutto al grande leone dorato che riempiva con le sue enormi dimensioni l'arena sotto la cupola di ferro e cristallo.


Il leone era il segno zodiacale di Coco Chanel e la grande perla sotto la zampa del colossale felino è una scelta legata alla predilezione della stilista francese per questi gioielli.

Ma quello che ci interessa è che il modello di riferimento per lo scenografo Stéfan Lubrina (non so quanto consapevolmente difatti nell'intervista al NYT afferma l'esistenza di un originale a Roma) è stato il Leone Medici che lo scultore Flaminio Vacca scolpì nel 1594 e che dal 1789 è a guardia - insieme a un altro leone antico - della Loggia della Signoria.

Leone di Flaminio Vacca, Loggia della Signoria , Firenze

La coppia leonina prima dell'attuale collocazione fiorentina era posizionata sotto la loggia di Villa Medici a Roma e il Vacca ricorda in una usa memoria che "dietro il Palazzo dei Conservatori, verso il Carcere Tulliano, so essersi cavati molti pilastri di marmo statuale, con alcuni capitelli tanto grandi , che in uno di essi  vi feci io il Leone per il Gran Duca Ferdinando nel suo giardino alla Trinità". Leone che lo scultore romano firmò OPUS FLAMINI VACCAE ROMANI come ancora si può leggere nella base.
Quasi sicuramente il riferimento del Lubrina a un originale romano è da ascriversi al fatto che per Villa Medici, sede dell'Accademia di Francia, vennero realizzate agli inizi dell'Ottocento le copie dei due leoni portati a Firenze una decina di anni prima. Difatti il modellino che lo scenografo mostra durante l'intervista è molto più vicino alla copia dell'Accademia di Francia che all'originale del Vacca.
 I
Leone a Villa Medici

mercoledì 22 dicembre 2010

Davila_01

L'architettura dell'Ottocento ha confuso l'organismo con il vestito, quella del Novecento lo confonde con lo scheletro.

da Nicola Gomez Davila, In margine a un testo esplicito, Adelphi

domenica 5 dicembre 2010

Responsabilità verso il Patrimonio Culturale..dal Blog di Giorgio Israel

L'articolo del professor Israel non ha bisogno di molti commenti.

Riassume in maniera efficace il pensiero di coloro che hanno l'onore e l'onere di conservare il nostro patrimonio culturale costretti a subire quotidianamente lezioncine sulla valorizzazione pelosa e sull'eventismo a tutti i costi.

Il 6 novembre, mentre Israel visitava gli scavi di Ostia antica, ero impegnanto in un intervento in occasione del XX° anniversario dell'inserimento di San Gimignano nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. Questo è un passaggio del mio contributo (perdonate l'autocitazione):  "In un momento di particolare difficoltà dal punto di vista delle risorse economiche disponibili diventa fondamentale una coerente e corretta politica di conservazione e restauro del patrimonio monumentale. Troppo spesso l’errata percezione di solidità dei paramenti lapidei dei nostri monumenti viene smascherata da perdite di frammenti più o meno estesi che soltanto una incisiva politica di manutenzione programmata potrebbe arginare. Siamo chiamati ad agire, recuperando tecniche tradizionali e sviluppando nuove tecnologie, per preservare al meglio il grandioso patrimonio ereditato e che dobbiamo trasmettere alle generazioni future."

Alla fine del convegno mi arriva un sms su Pompei...



Pompei e la cultura calpestata


Per una singolare coincidenza, mentre era da poco crollata la Casa dei Gladiatori di Pompei, ignaro dell’evento, stavo visitando gli scavi di Ostia Antica, non impressionanti come quelli di Pompei ma di grande suggestione e importanza, poiché offrono l’immagine di una città commerciale dell’antica Roma. Mi chiedevo come fosse possibile una tariffa d’ingresso così irrisoria: 6,50 euro, ridotti a 3,25 o a zero per numerose categorie. In cinque abbiamo pagato 6,50 euro. Somme simili non coprono il costo necessario a riscuoterle. Non sarebbe possibile pretendere molto di più e abolire certe assurde facilitazioni? Ma certo che sarebbe possibile. Figuriamoci se un turista, una volta venuto in Italia, si tirerebbe indietro di fronte a una spesa un po’ più consistente! E poi, perché mai nei musei esteri sono presenti negozi che offrono una profusione di oggetti e gadget fantasiosi e anche di qualità, mentre i nostri non vanno oltre una misera offerta di cartoline, matite o t-shirt? La fantasia non arriva neppure a mettere in vendita puzzle dei mosaici, costruzioni dei monumenti per bambini o riproduzioni dei dipinti. All’estero, sfruttano come limoni i quattro zeppi che possiedono, mentre noi, che rigurgitiamo di beni culturali, li esibiamo sciattamente, con la testa girata dall’altra parte, come se la conservazione di questo immenso patrimonio fosse un’incombenza fastidiosa, una condanna; e il suo sfruttamento fosse da lasciare in mano all’esercito dei “ciceroni” fasulli, dei camion di paninari e dei borseggiatori.
Sappiamo bene che anche una gestione oculata di tariffe e negozi servirebbe al più a coprire le spese del personale. Servono investimenti rilevanti, rilevantissimi. Ma come si fa a non capire che questa è la risorsa che rende l’Italia unica al mondo? Pare che sia falsa la notizia che qualcuno nel governo abbia detto che la cultura non si mangia. Meno male, perché pur lasciando da parte la volgarità di una simile espressione, sarebbe stupefacente che non si capisca quale immenso valore economico rappresenta il patrimonio culturale italiano.
Sia ben chiaro. Se vogliamo parlare il linguaggio della verità va detto che su questo tema può scagliare la prima pietra soltanto chi è senza peccati, cioè quasi nessuno. È indubbio che il governo e la maggioranza abbiano le loro colpe. Se il rigore finanziario si esercitasse in modo uniforme su tutti i fronti non vi sarebbe niente da dire. Ma non è così. Gli esempi sono tanti. Basti dire che non si può da un lato combattere il fenomeno dei falsi invalidi e poi approvare leggi che rischiano di estendere in modo sterminato la platea dei falsi disabili.
Certamente le finanze del nostro paese sono in bilico e il rigore è indispensabile in presenza di una crisi strutturale profonda che purtroppo non è ancora alle spalle. Ma questo è un paese in cui, pur mettendo da parte l’evasione fiscale, si sperperano risorse in modo indecente. Nel nome della “cultura” scorrono torrenti di quattrini da ogni lato. Non c’è ente locale che non abbia la sua sagra letteraria, scientifica, filosofica, che non promuova un premio letterario, che non organizzi convegni sugli argomenti più inattesi. Tutto questo mobilita un’enorme quantità di risorse, per produrre spesso poco o niente di valido. Provate a constatare lo stupore con cui uno straniero accoglie la descrizione della mole incredibile di iniziative “culturali” che pullulano in ogni angolo del Bel Paese. Basterebbero le spese necessarie a sostenere un certo numero di queste iniziative per dare ossigeno alle nostre disastrate Biblioteche nazionali. Un minimo senso di responsabilità dovrebbe indurre gli enti locali a fare a gara nel dirottare i fondi impiegati nelle iniziative “culturali” effimere verso il compito di salvare un inestimabile patrimonio archeologico, artistico, architettonico, museale, culturale; invitando gli sponsor privati che intervengono in quelle iniziative a fare altrettanto. E, se tale senso di responsabilità non vi fosse, bisognerebbe esplorare tutte le vie per costringere a comportamenti virtuosi, come si richiede in circostanze di emergenza.
Purtroppo, in barba alla verità che “nessuno può scagliare la prima pietra”, stiamo assistendo alla solita sagra dell’ipocrisia nazionale. Difatti, se il governo non brilla per sensibilità nei confronti della cultura, chi lo attacca dall’opposizione fa la parte del bue che da del cornuto all’asino. Chi, se non quasi tutte le amministrazioni locali di sinistra (ispirandosi all’ideologia della cultura dell’effimero), ha finanziato per anni lautamente feste su feste, festival su festival, le iniziative più fasulle, spesse appaltate a dilettanti il cui unico merito era quello di essere “amici”, mentre i marciapiedi dei centri storici andavano in pezzi e i monumenti si ricoprivano di immondizia e di graffiti? L’ex-sindaco di Roma Veltroni, invece di gridare allo scandalo, dovrebbe fare autocritica per aver favorito la cultura dell’effimero, mettendosi in gara con Venezia per duplicare il festival del cinema, invece di impegnarsi esclusivamente sul fronte del patrimonio archeologico, artistico e culturale della capitale.
Il crollo della Casa dei Gladiatori di Pompei è frutto di un disastro che ha premesse lontane, è l’esito di un disinteresse scandaloso di cui tutti, nessuno escluso, dovrebbero fare ammenda e per il quale dovrebbero cospargersi il capo di cenere. Invece, si preferisce imbastire la sagra dell’ipocrisia e della strumentalizzazione politica e non mettere il dito sulla vera piaga: la necessità di cessare una volta per tutte di sparlarsi addosso dalla mattina alla sera di “cultura” in termini metodologici, ludici o spettacolari, mentre i fondamenti materiali della cultura – monumenti, musei, scavi, biblioteche, archivi – si sgretolano.
Si tratta nientemeno che dei fondamenti della nostra civiltà, quelli che danno senso alla nostra identità storica. Ma sono sempre meno coloro che nutrono interesse per questi fondamenti. Siamo sempre più nelle mani di persone la cui sensibilità culturale è prossima allo zero. In fondo, è la stessa situazione che si verifica con l’istruzione. La prima preoccupazione non dovrebbe essere quella di plasmare la formazione dei giovani su quei valori e su quei contenuti culturali che sono il fondamento della nostra civiltà? Invece siamo sotto la ferula di personaggi che predicano che non deve contare nulla “cosa” si pensa, bensì soltanto “come” si pensa. In tal modo, il “cosa”, ovvero la cultura propriamente detta, va a pezzi come la Casa dei gladiatori. Perciò, con tutto il rispetto per i manager e il loro ausilio indispensabile, non bastano i tecnicismi. Il patrimonio culturale non si salva con il modello Asl o consegnando tutto ai privati. Occorre una presa di coscienza nazionale e una grande spinta morale per salvare ciò che rappresenta la nostra principale e unica ricchezza. Purtroppo, c’è seriamente da temere che nutrire la speranza di una simile presa di coscienza sia una grande ingenuità.
(Il Giornale, 8 novembre 2010)

venerdì 10 settembre 2010

Addio Litta

Ieri si è spenta Litta Medri e immediatamente il ricordo va al mio primo incarico alle Belle Arti, il cantiere del Cosimo I del Giambologna in piazza della Signoria dove, giovane funzionario, mi trovai proprio Litta Medri, che seguiva e dirigeva i lavori per la Soprintendenza e subito rimasi colpito dal suo stile: un affascinante fusione di eleganza e affabilità. Direi che nacque, in quell'occasione, una corrispondenza affettuosa e protettiva: come una sorella maggiore fu prodiga di consigli e avvertimenti. Nei successivi anni e nei successivi lavori si è sempre mantenuto questo rapporto anche se, recentemente, le occasioni di rinnovare questa amicizia sono state molto rare.
Alla questa nuova tristezza si aggiunge il ricordo di un'altra amica perduta, conosciuta sempre sul restauro del Cosimo, la restauratrice Tiziana Igliozzi.

In Pace

venerdì 15 gennaio 2010

venerdì 8 gennaio 2010